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Gianni Narici, amico nostro.



Durante la vita, questo misterioso cicaleccio, in una persona cerchiamo l’altrove. Può avere l’aspetto di una trottola o di un caleidoscopio, l’indole di un cavallo o di un delfino. Può esercitare l’oppressione del comando o il sollievo dallo stesso.

Andava in ufficio e certi giorni la sua borsa pesava una tonnellata, in altri era leggera come una piuma e mentre si occupava di questioni importanti, spesso vitali, la sua immagine si trasformava. Si concentrava su un punto lontanissimo, come se stesse impastando un qualcosa di fantastico e assumeva l’aspetto di una persona che comparava la vitalità dei personaggi napoletani ritratti da Saverio Della Gatta, con quelli realizzati da Renato Guttuso per il Maggio del 68. Prevalendo poi il suo carattere, la fronte si aggrondava, le palpebre si socchiudevano e le labbra si appuntivano. Allora la melodia di Povera Italia di Battiato o il Nessun dorma dalla Turandot venivano appena sussurrate come se dovessero addormentare o svegliare quella sua combinazione magica finché, afferrate due penne e con grazia disinvolta, iniziava a tamburellare ogni cosa disponibile. Allora il suo lieve sorriso si allargava d’innocenza e di stupore fino all’esclamazione: Evviva!

Predisposto per fare il dirigente e accompagnato dal senso dell’ironia, questa non era mai un colpo di mazza, bensì una delicata carezza. E per quanto stuzzicasse indistintamente i suoi collaboratori, in attesa di un risultato più metafisico che tangibile, prestava soccorso indistintamente a tutti. Non perché fuggisse rincorso da qualcuno ma per quegli strani comportamenti spesso confusi tra personalità e temperamento.

Durante la sua attività, mentre si rendeva conto di un qualcosa di insolito o di personale, lo raccontava ai presenti suscitando una sempre più chiassosa ilarità quasi fosse suonata la campanella dell’ultima ora per cui tutti, finalmente, potevano correre via.

E non era certo il tipo che rientrato a casa si adagiasse sulla poltrona assumendo l’aspetto di una boa di salvataggio. Da lui si aspettavano molte cose che non sapeva, ma faceva tutto quello che gli chiedevano. E questo gli arrecava sempre una inaspettata felicità.

L’amore, rinnovato quotidianamente da un gesto dal sapore ancestrale, prevedeva di sorseggiare a metà una tazzina di caffè. Poi fu divisa in tre, in quattro e anche in cinque. Finché un giorno, davanti ad un corazziere in miniatura, iniziò a soccombere a una misericordiosa tenerezza.

Della sua carriera, che lo ha visto saltellante dentro un’infinita serie di reticoli, anche se per il rotto della cuffia, una cosa gli è riuscita benissimo: cadere sempre dentro una specie di aureola come quelle che annunciano il crepuscolo della sera.

Se parlassimo di vino, quest’annata potrebbe appartenere ad una vendemmia favolosa. Invece, parlando di una persona, dobbiamo chiederci cosa lo ha reso così particolare.

Se nella sua vita tutti gli elementi sono sempre stati, in un sorprendente gioco alchemico fedelmente alleati, non deve affatto stupirci che divenne il primo Generale di Corpo d’Armata dell’Arma dei Carabinieri, poi Magistrato della Corte dei Conti conseguendo, nel frattempo, otto lauree. Quale fu allora, il motore che rese possibile tutto questo?

La curiosità.

Un’ insaziabile necessità che lo ha assetato come un fabbro nella sua incandescente fucina. Lì ha trasformato i suoi saperi in speciali delizie ineffabili tanto che, per tutti noi, è un esempio di eccezionale umiltà. Ci mancano i suoi occhi disponibili ad accogliere l’inconfessabile e la sua voce capace di indicarci il più semplice tra i segreti: sono volati attraverso un delicatissimo labirinto d’aria. Qualcuno potrebbe dire di averlo visto danzare come una stella rara nel cuore della notte. *


*R. Schumann

Franco Zennaro


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